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sabato 31 gennaio 2009

Problemi di orientamento


E' da diversi anni che mi interesso di orientamento. Credo infatti che rappresenti un compito fondamentale della scuola media e che, nello stesso tempo, sia una tra le attività meno efficaci (all'atto pratico) tra quelle che si svolgono nella scuola. Il mio intento con queste brevi note è di proporre una visione di orientamento, fondata sull'esperienza derivante dalla partecipazione a diversi progetti negli ultimi anni, e di stimolare un dibattito e un confronto.

Buone pratiche?

Recentemente la Provincia di Modena ha pubblicato un opuscolo indirizzato ai ragazzi che  finiscono la scuola media e ai loro genitori. Si intitola "Ho finito le medie, mi piacerebbe fare....".

Scrive nella presentazione Silvia Facchini, Assessore provinciale all'Istruzione e Formazione Professionale della Provincia di Modena, rivolgendosi ai ragazzi "Forse siete già  sicuri della scelta, oppure siete ancora indecisi. È importante che riflettiate sulla vostra esperienza scolastica, cercando di capire quali sono le materie che studiate più volentieri e con meno fatica, che cosa vi piacerebbe fare da grandi, cosa vi aspettate per il futuro. La scelta non è facile, ma cercate di essere sereni e affrontatela con la tranquillità  di aver sempre la possibilità  di cambiare indirizzo senza perdere gli anni di studio se strada facendo doveste accorgervi di aver sbagliato percorso."

E poi, rivolgendosi ai genitori: "Per questo nella guida troverete innanzitutto delle informazioni, verificate da esperti: informazioni sulle opportunità  disponibili nel nostro territorio e informazioni sul sistema di scuola superiore, perchè per favorire un consapevole percorso di scelta da parte degli studenti delle medie e delle loro famiglie il presupposto fondamentale è che ci sia chiarezza e accuratezza informativa su quali scuole sono presenti nel nostro territorio, quali indirizzi sono attivati e quali titoli di studio vengono rilasciati."

Questo approccio istituzionale al problema dell'orientamento dei ragazzi delle scuole medie mi pare abbastanza emblematico. Consiste nell'affrontare il tema dell'orientamento partendo dalle scuole superiori del territorio e dagli indirizzi di studio che esse propongono, supponendo implicitamente che le famiglie ne abbiano un'informazione lacunosa o quanto meno approssimativa. Si invita poi ad incrociare a queste informazioni quelle derivanti dal lavoro di auto-osservazione dei ragazzi sulla propria esperienza scolastica passata.

1. In primo luogo quindi si cerca di accompagnare il ragazzo in un percorso di conoscenza delle proprie qualità e attitudini personali. Elemento forte per questo tipo di valutazione dovrebbe essere, riprendendo l'intervento sopra riportato, l'identificazione delle materie che si studiano più volentieri e con meno fatica. Non si pensa quindi a collocare ogni disciplina in un contesto più ampio che ne colga le valenze culturali e, in prospettiva, di preparazione ad un potenziale ventaglio di sbocchi occupazionali. E nemmeno si allude ai fenomeni di tipo psicologico che permettono di trasferire alla disciplina la simpatia sperimentata per il docente.

2. In secondo luogo si pone molta attenzione sull'importanza di una rassegna delle realtà scolastiche disponibili sul territorio e tra cui dovrà cadere la scelta. Si auspica che i ragazzi diventino esperti di discipline della scuola superiore, di indirizzi di studio, di titoli e di diplomi. Non si allude al fatto che una simile competenza possa essere appannaggio solamente di un esperto di sistemi formativi e che un ragazzo di 13 anni (e spesso nemmeno i suoi familiari) non possieda strumenti conoscitivi e analitici così sofisticati quali quelli necessari per operare raffronti, valutazioni comparative, simulazioni,ecc.

Si assume implicitamente che il ragazzo, una volta presa confidenza con la propria vera (o presunta) natura, sappia poi identificare con ragionevole sicurezza la scuola che promette di valorizzare appieno le sue qualità e propensioni.

Le difficoltà della scelta

L'approccio che si è cercato di illustrare presenta, da quanto ho potuto osservare nelle scuole dove ho lavorato, non pochi inconvenienti. Ad esempio:

1. E' piuttosto difficile per un ragazzo che non ha, e non può in effetti avere, esperienza diretta di scuola superiore farsi un'idea corrispondente al vero di che cosa sia effettivamente un istituto secondario di secondo grado e di che cosa significhi frequentarlo in termini di impegno, ore di studio, partecipazione, spirito di sacrificio, ecc. Ancora più difficile è per lui mettere in relazione queste rarefatte informazioni, in prospettiva, con la percezione delle proprie reali qualità, competenze e motivazioni.
La distinzione tra un indirizzo e l'altro o tra un istituto e l'altro rischia di restare agganciata ad elementi troppo superficiali, se non addirittura stereotipati. Elementi che  hanno spesso a che fare con la scelta dei compagni di classe, con l'impressione (necessariamente superficiale) avuta dalla visita alla scuola, con il consiglio di qualche professore, dei genitori o di qualche parente. 
2. Le varie discipline di indirizzo che costituiscono l'ossatura della scuola superiore che si cerca di conoscere sono spesso discipline nuove per i ragazzi, di cui si sa poco o niente e i cui connotati vengono affidati alle presentazioni delle singole scuole (i famosi Open Day) senza che a livello istituzionale se ne tratteggi il profilo. E' quindi tutt'altro che facile farsi un'idea di quel particolare indirizzo di studio e di quale possa essere il suo impatto complessivo sulla propria carriera scolastica e, in prospettiva, su quella professionale. Molto vaga resta anche la distinzione tra i differenti profili di uscita raggiungibili attraverso un determinato istituto secondario. Vengono il più delle volte presentati come delle sterili etichette poste a suggello di un non meno fumoso percorso di studio. Poco o nulla si dice sul dopo, cioè sulle complesse dinamiche attraverso le quali quel particolare titolo o diploma entrerà in relazione e in risonanza con i meccanismi del mondo del lavoro o dell'istruzione universitaria, e più in generale sugli assetti complessivi della propria vita di giovani-adulti.

Nel complesso la sensazione che rimane a chi partecipa a vario titolo alle attività dei progetti didattici sull'orientamento, è che i ragazzi e i loro familiari nonostante tutto non riescano a raggiungere una sufficiente consapevolezza che consenta loro di prendere una decisione serena e adeguatamente fondata e della quale non debbano pentirsi di lì a poco tempo.

Vie alternative

Se le strade finora battute non hanno dato i risultati sperati occorre mettere in campo nuovi modelli e sperimentare approcci differenti da quello tradizionale. Mi accingo quindi a delineare un modello alternativo fondato su un cambiamento di prospettiva.

Ciò che vorrei proporre è di mettere al centro del progetto di orientamento un concetto finora rimasto sempre in secondo piano, se non addirittura del tutto trascurato: il traguardo finale del percorso di formazione

Si tratta in sostanza di lavorare, invece che sul momento iniziale, sul punto di arrivo del percorso scolastico superiore. I riflettori si spostano sugli assetti complessivi di un giovane che, al termine del percorso di studio, entra progressivamente in contatto e in relazione con il mondo lavorativo e le sue complesse dinamiche. Assume in quest'ottica grande rilievo l'esito lavorativo di tutto il percorso, cioè il mestiere effettivamente svolto da una certa persona che ha seguito quel particolare iter formativo. 

In altre parole l'approccio qui delineato pretende di mettere al centro dell'attenzione e dell'osservazione non le singole scuole (con i loro molteplici e spesso misteriosi indirizzi) ma singole e ben individuate Persone, caratterizzate dal loro specifico mestiere o dalla loro specifica attività professionale. Si vogliono mettere a fuoco e indagare quei meccanismi, complessi ma non incomprensibili nè insondabili, che accompagnano e determinano la graduale trasformazione di uno studente in un lavoratore. Meccanismi fortemente influenzati e condizionati dall'iter scolastico seguito dopo la scuola media.

Un approccio del genere alla questione dell'orientamento presuppone di rivolgere lo sguardo nella direzione del mondo adulto e professionale, un mondo spesso poco presente all'interno dei tradizionali orizzonti scolastici della scuola media. Rivolgere lo sguardo e l'attenzione, quindi, su una persona viva e reale, con un nome, una storia di studi, di scelte, di decisioni, con un mestiere.

Ma, concretamente, dove ricercare questo "materiale umano"? Si potrebbe procedere con l'identificazione di soggetti significativi all'interno della cerchia di adulti (soprattutto di giovane età) in cui sono immersi gli stessi studenti. Quindi parenti, familiari, amici dei familiari ecc. I soggetti significativi, opportunamente coinvolti in questo tipo di attività, potrebbero essere intervistati dagli stessi ragazzi e le loro "storie" potrebbero andare a costituire una banca dati (in progressivo accrescimento e aggiornamento) dalla quale attingere preziose informazioni. Col tempo si potrebbero evidenziare, nella massa delle informazioni raccolte, percorsi di vita emblematici e caratteristici. Prenderebbe forma una sorta di "abaco" di possibili percorsi formativi, riconducibili alla reale e concreta esperienza di testimoni. Aspetti della vita professionale (quando non della vita tout court) finora trascurati come la soddisfazione, la gratificazione, la remunerazione, l'etica, la sicurezza, la mobilità, la responsabilità, il rischio, assumerebbero un ruolo centrale e decisivo.

In definitiva al ragazzo verrebbe affidato probabilmente un compito più semplice e proporzionato alle sue reali capacità: gli sarebbe richiesto uno sforzo di proiezione e di immedesimazione su storie e vicende (umane e di studio) ben individuate, appartenenti a persone del mondo reale. La scelta della scuola superiore potrebbe così inserirsi in un contesto più ampio, in una riflessione più profonda e articolata sulla propria vita. Il rispecchiamento con la scelta fatta da adulti di cui si sono conosciute motivazioni ed esiti professionali garantirebbe maggiore affidabilità alla propria scelta. Il focus della sua decisione passerebbe da un generico "vorrei frequentare quel tipo di scuola" a un ben più mirato e motivante "vorrei raggiungere quel traguardo lavorativo per assomigliare a quella persona che ho conosciuto".

mercoledì 28 gennaio 2009

Effetà

Insegno quest'anno in una scuola particolare. D'accordo, ogni scuola lo è in un certo senso... ma questa veramente. Ad esempio i ragazzi sono quasi tutti di famiglie non-italiane, magari in Italia solo da pochi anni, e non di rado con situazioni problematiche varie.

Scrivo questo post per raccontare la sensazione insolita che ho provato qualche giorno fa, sensazione che ho poi capito essere condivisa anche da altri colleghi, nella mia e in altre scuole.

Ero in una classe e stavo parlando per fornire indicazioni e istruzioni utili per non so quale attività. Fatto sta che a un certo punto mi sono accorto che quel mio parlare era inutile, che le mie parole, alle quali io pretendevo di affidare un certo messaggio definito e particolareggiato, rimbalzavano addosso ai miei giovani ascoltatori, cadevano in terra senza più un alito di vita. Insomma, come spiegavo la sera a mia moglie (insegna anche lei), la sensazione di parlare a sordi, a non udenti. E di quelli che non hanno imparato a leggere le parole sulle labbra.

Mi sono interrogato sul perchè. E ho tentato di abbozzare una risposta.

Il nostro parlare, intendo il parlare di quelli della nostra generazione, dai trenta ai cinquanta per intenderci, è un gergo esclusivo, una lingua elitaria. E' una lingua nata da una frequentazione libresca straordinaria, fatta di decine e decine di libri ogni anno per molti anni. E' una lingua che assomiglia in modo impressionante a un libro stampato: è come se il nostro parlare fosse in realtà la lettura ad alta voce di un testo che, con abilità unica e straordinaria, riusciamo a comporre all'istante nella nostra mente tipografica. E' una lingua che nasce scritta e solo successivmente, e senza modifiche, si fa parlata.

I nostri ascoltatori no. La loro lingua è tutt'altra. Tanto intellettuale e tipografica è la nostra quanto corporale e spontanea è la loro. Noi non la sappiamo parlare la loro lingua. Non è fatta di parole, è un linguaggio non verbale la loro lingua. Siamo spaesati, attoniti, come chi, senza conoscerne la grammatica, vede un sordomuto che gli rivolge un messaggio fatto di gesti e di segni. Fatto di emozioni, di sensazioni.

Forse è arrivato il momento di abbandonare, almeno a scuola, la nostra lingua, il nostro dialetto esclusivo da bibliofili. E di imparare le lingue dei gesti, dei segni, delle immagini.

lunedì 26 gennaio 2009

Cosa vogliamo fare?

Mi domando: ma che cosa vogliamo fare di questa scuola?
Vogliamo continuare a fare finta che vada tutto bene?

venerdì 23 gennaio 2009

Qualche buona lettura ...


Autocitazione: ho scritto questo post in un blog di qualche tempo fa, ora chiuso. Lo inserisco qui con qualche piccola correzione...

La disciplina che si occupa della Scuola come organizzazione non ha ancora una sua vera autonomia e non ha ancora un nome, se mai l’avrà. Sta di fatto che esistono però molti riferimenti utili per chi debba o semplicemente desideri approfondire le proprie idee e convinzioni sul funzionamento della Scuola. Darò nel seguito alcuni cenni per fornire un semplice punto di partenza.

Suggerirei di prendere in considerazione due autori: Piero Romei e Giuseppe Fumarco, il primo purtroppo prematuramente scomparso. Romei è stato docente di Teoria dell’organizzazione all’Università di Bologna mentre Fumarco opera prevalentemente a Torino, nell’ambito dell’IRRE.

Un testo fondamentale da cui si potrebbe partire è “Guarire dal mal di Scuola” di Romei (La Nuova Italia, 2000). Il titolo non deve ingannare: è un testo dal taglio serio e documentato, in linea con lo stile di questo grande studioso. Il linguaggio usato e gli argomenti trattati sono accessibili anche a chi li affronti per la prima volta.
Dello stesso anno è “Cultura e pratica dell’autonomia - manuale per l’organizzazione scolastica” di Fumarco (La Nuova Italia, 2000). Si tratta di un volume più impegnativo che affronta in modo capillare una grande quantità di questioni. I riferimenti al lavoro di Romei sono espliciti in diversi punti.

A distanza di alcuni anni Romei e Fumarco sono tornati alle stampe con due testi che si possono ritenere a mio parere fondamentali. “Fare l’insegnante nella scuola dell’autonomia” di Romei (Carocci, Giugno 2005) e “Professione docente - ruoli e competenze” a cura di Fumarco (Carocci, Ottobre 2006). Il libro curato da Fumarco documenta il lavoro di un gruppo di ricerca attivato in ambito IRRE e risulta più ricco ed esaustivo ma lo stile e la sintesi di Romei rimangono insuperabili.

sabato 17 gennaio 2009

LIM: opportunità o rischio


Premessa

Conosco la LIM (lavagna interattiva multimediale) per averla usata un paio di anni fa nella scuola media di Ozzano dell'Emilia dove ero in servizio. Però l'ho usata per poco tempo e in poche occasioni quindi non posso certo definirmi un esperto o uno sperimentatore, condizione invece essenziale a mio avviso per cogliere gli aspetti e le qualità meno immediate e più significative di qualunque tecnologia educativa.

Detto ciò vorrei comunque svolgere alcune considerazioni sulla LIM che nel loro complesso definiscono una posizione contraria o almeno scettica rispetto alla sua (annunciata) massiccia introduzione e diffusione e che ritengo possano essere di un qualche interesse e spero di qualche utilità. Ben lungi dal voler assumere una posizione conservatrice o peggio reazionaria, il mio intento è di temprare, se così si può dire, le ragioni a favore dell'introduzione della LIM nella didattica per ripulirle da quel poco (o tanto) di facile entusiasmo che sicuramente non giova al dibattito in corso.

Quali competenze?

Un uso della LIM presuppone una discreta competenza tecnologica da parte dell'insegnante, sia per il suo funzionamento elementare (accensione, utilizzo, spegnimento) che per il suo corretto ed utile impiego. Nella scuola media possiede queste competenze solo una minoranza dei docenti, a mio avviso abbastanza esigua. A mettere in crisi e a gettare nel panico basta un lettore DVD poco amichevole, un cavo scollegato, una presa scart difettosa. Normalmente gli insegnanti non usano le tecnologie a scuola perchè non le usano nemmeno a casa, le temono, le evitano. Esiste quindi a mio avviso, ancora, un problema fondamentale di alfabetizzazione tecnologica e informatica del corpo docente. Non è difficile riconoscere come su questa situazione di persistente analfabetismo pesi il ruolo subalterno in cui viene ancora mantenuto, nella scuola di base, l'insegnamento delle materie tecnologiche.

Mediatori o somministratori?

Uno degli argomenti dei fautori della LIM e della sua introduzione è che attraverso e grazie ad essa possa finalmente entrare nella scuola un nuovo modello di insegnamento / apprendimento, più coinvolgente, più motivante. Ma quale sia questo modello non viene sufficientemente illustrato e risulta a mio avviso poco chiaro. Potremmo forse affermare, sperando di non deviare troppo dal vero, che il modello a cui si tende vede l'insegnante più come un mediatore tra allievi e sapere che come un somministratore o un erogatore di contenuti, introducendo una significativa trasformazione del suo ruolo rispetto ad una lunga tradizione scolastica.

Ma quest'idea, che nelle sue linee generali è a mio avviso del tutto condivisibile, presuppone un mutamento di prospettiva che vede appunto l'insegnante farsi accanto all'allievo (non più di fronte, magari dietro la cattedra) e affiancarlo nell'utilizzare gli strumenti che gli sono familiari (all'insegnante, intendo) nell'esplorazione, elaborazione e condivisione di conoscenza, assumendo quindi una funzione fondamentale di esperto e di guida.

Ora la LIM, lungi dall'essere uno strumento di elaborazione della conoscenza, si caratterizza piuttosto come un sofisticato strumento di presentazione e di intrattenimento, manovrato e governato dall'insegnante, cioè da colui che dovrebbe invece mettersi da parte, fare per così dire un passo indietro, per lasciare il controllo all'allievo. Non quindi un allievo al timone, supportato e sostenuto da un insegnante-coach (allenatore) ma un allievo passivo, in ascolto (o se volete in "audio-visione"), ancora una volta rivolto alla solita lavagna, benchè resa più accattivante e finalmente aggiornata all'era digitale.

Vale la pena ribadire come qui non si voglia affermare che la LIM non possa essere usata in modo intelligente e didatticamente efficace, ma si intenda piuttosto mettere in piena luce la sua essenziale proprietà in quante strumento tecnologico e didattico, che è appunto quella che si è detto sopra. Riprendendo la vecchia ma sempre efficace distinzione di Mc Luhan tra media caldi e media freddi, l'impressione è che si voglia sostituire un media freddo come la lavagna tradizionale, che richiede da parte degli studenti una loro attivazione per "riempire" il suo "vuoto" di informazioni e di stimoli, con un media caldo cioè ad alta definizione e a più alto contenuto informativo ma con un conseguente minore coinvolgimento. Questo è sbagliato per almeno due motivi: 1) le statistiche mostrano come il mondo giovanile si stia lentamente affrancando dalla dipendenza televisiva, preferendo all'assordante (calda) comunicazione televisiva una più umanizzante e rarefatta (fredda) forma di oralità secondaria, quale è quella della comunicazione tramite SMS o IMS (chat, messenger, ecc); 2) il mondo scolastico, che sta faticosamente introducendo il computer (media a bassa temperatura e ad alto coinvolgimento) e l'uso della rete internet (per non parlare del videogioco e della simulazione al computer) nella sua prassi didattica abituale, si vede improvvisamente proiettato in una direzione "mediatica" di segno diverso per non dire opposto.

Per concludere, riteniamo che il mondo scolastico potrà trarre qualche vantaggio dalla progressiva introduzione della LIM se esso si accompagnerà da un lato al rafforzamento della presenza del computer e della connettività internet nelle aule scolastiche, dall'altro se non spegnerà  (e il rischio è concreto) i tanti e significativi tentativi di innovare la didattica nella direzione di un apprendimento che sia maggiormente coinvolgente, collaborativo e cooperativo.

giovedì 15 gennaio 2009

Cultura informatica

Un paio di mesi fa il Miur ha emesso un documento molto interessante riguardante l'Informatica e il suo insegnamento nella scuola di ogni ordine e grado. Il testo fornisce una visione convincente relativa al duplice e irrinunciabile ruolo dell'Informatica come disciplina di insegnamento: ruolo culturale e ruolo strumentale.

Se ne può ricavare l'indicazione e l'auspicio molto generale che (penso alla scuola Media) l'Informatica sia insegnata dai docenti di area matematico-scientifica-tecnologica ma che sia (largamente) impiegata da tutti i docenti.

Il documento ha per titolo: "Proposta di un syllabus di Elementi di Informatica per il primo ciclo – anno 2008"